Vieni a placarmi
questo caos del tempo come allora, delizia della Musa
tu che concilii gli
elementi tutti! Dacci la pace coi tranquilli accordi
celesti e unisci quel
ch'è diviso finché la placida natura antica
fuori del tempo dai
fermenti grande, alta e serena si sollevi.
Torna viva bellezza tu
nei cuori miseri ed alle mense ospiti, ai templi torna!
Friedrich Hölderlin
Messaggi
che giungono dall’antichità , che attraversano il presente per essere
trasportati nel futuro. Messaggi di armoniosa bellezza, messaggi talvolta
inascoltati, messaggi mai pronunciati che restano imbrigliati nello spazio
eterno che divide l’anima dalla parola. L’essenza di questa mostra è racchiusa
in due termini: messaggio e antichità . Semplici, ma allo stesso tempo complessi
nei loro molteplici significati.
All’osservatore
attento non sfuggirà la costante presenza, nelle opere del pittore torinese,
dell’antichità e di ciò che la cultura antica ha prodotto: templi, statue
marmoree, anfore, vasi. Allo stesso osservatore non passerà inosservata neppure
un’assonanza con la pittura metafisica di Giorgio de Chirico e con quella
surrealista di Alberto Savinio. Ma a questo punto è giusto procedere per
dissonanze, per capire meglio in quale direzione si sta muovendo la pittura di
Palumbo. L’atmosfera classicheggiante che respiriamo nelle sue opere non è la
stessa che ha ispirato i fratelli de Chirico. Certo la “segreta magia†della
linea dell’architettura classica che tanto ha affascinato Giorgio de Chirico,
non ha lasciato indifferente neppure il nostro artista. Il dipinto Archeologi realizzato nel 1927 rivela
con quale spirito il maestro della Metafisica concepiva la citazione classica:
le due figure monumentali che campeggiano all’interno di uno spazio angusto e
innaturale, hanno il torace ingombro di colonne, frammenti di paesaggi e di
architetture. Quello che queste due figure rivelano è l’immagine quasi onirica
di una Grecia ridotta a frammenti e rovine, e percorsa dallo spirito nostalgico
di discendenza romantica e böckliniana. L’impressione è che le architetture
abbiano nella pittura di Giorgio de Chirico una funzione di quinta
scenografica, quasi uno schermo volto a sottolineare la costante tensione tra
l’oggetto e lo spazio, tra il pieno e il vuoto. Anche nella pittura di Savinio
ricorrono scene e frammenti della Grecia classica. Passati al vaglio dalla sua
acuta ironia, i monumenti della classicità e le antiche figure appaiono
bloccati in una visione demitizzante, in accostamenti illogici e volutamente assurdi.
Savinio stesso scriveva nel 1919 su Valori Plastici che “il classicismo non è
ritorno a forme antecedenti prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa, ma
è il raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e
di una volontà artistica, la quale non esclude affatto le novità di
espressione, anzi le include, anzi le esigeâ€. E dunque il suo Apollo (1931) ha la parte inferiore del
corpo a forma di colonna con tanto di capitello, il torace di uomo e la testa
di oca. Una visione onirica, irriverente, di spaesante trasformazione.
Nelle
opere di Palumbo l’antichità è parte integrante di una narrazione atemporale. I
suoi templi non sono mai “rovineâ€, si ergono intatti nella loro maestosità , le
colonne non sono segnate e scalfite dal tempo, così come le presenze scultoree
sono levigate nel loro biancore marmoreo. Un mondo integro che tuttavia
l’artista ha sottratto al suo contesto naturale, per trasportarlo in un altrove
al quale non riusciamo a dare una collocazione. Palumbo gioca dunque di voluti
spaesamenti, creando un’atmosfera “metafisica†in cui spazio e tempo vengono
annullati, in cui regna un ordine che è agli antipodi di ogni confusione. Le
sue opere sono palcoscenici enigmatici e misteriosi, sottratti al flusso
normale della vita, che lasciano l’osservatore in balia di domande e di un
senso di inquieto disorientamento.
In
tale senso la pittura di Palumbo è riconducibile alla
corrente metafisica. È lo stesso Giorgio de Chirico – nel suo scritto del
1927 Statues, meubles et généraux – a chiarire in modo semplice e immediato il concetto
di straniamento: "La statua eretta su di un palazzo o un tempio, ovvero al centro di
un giardino o di una pubblica piazza, ci si presenta sotto diversi aspetti
metafisici. Nel caso del palazzo, dove si staglia contro il cielo meridionale,
essa ha qualcosa di omerico, un piacere severo e distaccato, con una punta di
malinconia. Sulla piazza ha sempre un aspetto eccezionale, soprattutto se
poggia su un piedestallo basso, in modo che sembri confondersi con la folla dei
passanti, coinvolta nel ritmo della vita cittadina di tutti i giorni. Nel museo
assume un aspetto ancora differente: ci colpisce per quel che ha di
irreale".
Dunque se il busto di Ermes (Il viaggio di Ermes) non fosse appoggiato su un’isola rocciosa
volante, davanti a un pallone rosso con stelle gialle, ma fosse esposto nella
sala di un museo, non avrebbe sull’osservatore lo stesso impatto: in quel caso
sarebbe la testimonianza delle abili mani di un antico maestro, e verrebbe
guardato per la sua gradevolezza estetica. In questo contesto, invece, lo
osserviamo chiedendoci il perché di questo accostamento incongruo. Non c’è
sicuramente in Palumbo la volontà di smitizzare il passato spogliandolo della
sua sacralità . Questa scelta, senza dubbio volutamente azzardata, conferisce al
contrario maggior importanza al busto marmoreo, che diventa punto focale della
composizione. Forse in un museo l’avremmo osservato a gran velocità passando da
una sala all’altra, qui fatichiamo a staccare lo sguardo. Ci soffermiamo a
guardare il gioco di chiaroscuri della superficie, la morbidezza dei capelli
che si appoggiano sulle spalle, il profilo altero e pensoso che si cela sotto
il cappello alato. La volontà di destare stupore avvicina dunque l’artista alla
concezione pittorica di Savinio: diverse sono naturalmente le modalitÃ
espressive – figlie di contesti culturali e sociali differenti – ma
il fine è senza dubbio quello di ribaltare una logica comune che vorrebbe in un
caso una scultura esposta in un museo, e nell’altro una dama con la testa di
donna e non di oca.
La
soppressione del senso logico che Palumbo mette in atto nelle sue tele ottiene
quindi il risultato di spiazzarci: di fronte alle sue opere non ci riconosciamo
più, e neppure riusciamo del tutto a capire quale siano le leggi segrete che
governano il suo mondo. Eppure è un ignoto che non ci spaventa. Il suo è un
tempo sospeso in cui passato e presente convivono, e che suscita stati d’animo
contrastanti in bilico tra la nostalgia di ciò che accaduto e il presagio di
qualcosa di cui ci è ancora negata la conoscenza. E parlando del tempo è
curiosa la presenza di un orologio nella tela La stanza del messaggero, che riesce a restare in perfetto
equilibrio nonostante sia sostenuto solo dal vuoto. È un orologio che non
misura il rincorrersi delle ore della giornata, ma che segue il tempo della
memoria; e nella memoria non esistono regole precise, non esiste un prima o un
dopo, un troppo presto o un troppo tardi. Il tempo della memoria è dilatato, e
come tale può essere scandito solo da un orologio fermo da sempre sul tetto di
una casa. È interessante notare che
all’indeterminatezza temporale che abita le opere dell’artista non si
accompagna l’immobilità . Gli impaginati pittorici sono sovente strutturati su
piani compositivi volutamente diversi, dove moto e staticità si contrappongono
creando un insieme armonioso. Esempio significativo è la composizione Sono quello che voi siete: la figura
statuaria di Ermes occupa visivamente un primo piano immobile. La fissità della
scena contribuisce a sottolineare l’immutata e incrollabile bellezza del figlio
di Zeus; alle sue spalle, oltre la coltre rossa di un ipotetico sipario
teatrale, si apre un cielo solcato da nubi e battuto da un vento che trasporta
in aria edifici e balocchi colorati. La staticità della pittura metafisica, che
evoca tersi cieli atonali e luci calibrate, viene dunque abbandonata a favore
di una cifra espressiva ricca di sfumature di colore, giocata con raffinatezza
sui contrasti tonali e su studiati passaggi tra luci e ombre. Assai
interessante la costruzione di Composizione
con ali, che si regge su una struttura complessa, quasi un’opera
nell’opera. All’interno di una scatola rossa, appoggiata su una terrazza che
affaccia su un mare increspato, campeggia un piccolo edificio, che racchiude un
cielo stellato. Palumbo forza la bidimensionalità della tela per aprire nuovi
spazi, per suggerire la presenza di un altrove in cui tutto è possibile. È
quasi un suggerimento a non fermarsi su quello che si vede, a oltrepassare il
velo di Maya per arrivare a carpire l’essenza della realtà . Le stesse ali,
costrette all’interno di una scatola scura, sono il simbolo della leggerezza,
del collegamento tra cielo e terra e della possibilità di abbandonare il
consueto, per volare verso un mondo solo sognato.
E
l’uomo? Nelle forti e delicate pagine pittoriche di Ciro Palumbo, l’uomo si
identifica – fino a sovrapporsi – con le figure mitologiche
dell’antichità . Dunque ora è Ermes, ora è Prometeo. E in entrambi i casi è
l’aspetto più intimo e travagliato, quello portatore di infinite e molteplici
sfaccettature, che l’artista torinese vuole indagare.
Nell’inno omerico Ermes viene invocato come dio
dalle molte risorse, gentilmente astuto, predone, guida di mandrie,
apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli, ma era anche
e soprattutto il messaggero prescelto da Zeus per portare a compimento delicate
missioni. Il dio greco diventa lo specchio dell’uomo che racchiude in sé le
molteplici sfaccettature della natura umana, sede di atavici travagli e
dell’eterna lotta fra la propensione al bene o al male. È un Ermes nuovo,
figlio dei nostri tempi, tormentato e chinato su se stesso, bendato perchè
cieco come gli uomini, o forse reso cieco dall’incomunicabilità con gli uomini,
colto nel gesto affranto di invocare un cielo solcato da spesse nubi nere,
portatrici di funesti presagi. Anche nel ciclo pittorico dedicato a Prometeo, Ciro Palumbo si distacca coraggiosamente da secoli di
rappresentazione e ci pone davanti a un Prometeo diverso, che nulla eredita
dalla tradizione iconografica. Le sue pagine pittoriche si presentano spogliate
della teatralità e pathos che solitamente ne caratterizzano la figura, non
presentando né il dramma del suo castigo senza fine nè il trionfo del ratto del
fuoco. È un Prometeo essenzialmente umano a cui è concesso il libero arbitrio e
la conseguente capacità di scelta, consapevole della sua colpa e al tempo
stesso fiero del prezioso dono fatto agli esseri umani.
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